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Dennis González Yells At Eels - Cape of Storms

Luca Canini, AllAboutJazz Italia

A vent'anni dall'ultima volta in cui le loro strade si erano incrociate, nei primi giorni dello scorso febbraio Dennis González e Louis Moholo-Moholo sono tornati a calcare lo stesso palco. È successo a Dallas e New Orleans, a margine di una serie di concerti e workshop tenuti negli States dal batterista sudafricano. Cape of Storms, pubblicato dalla Ayler, è la testimonianza discografica di quell'incontro, poco più di settanta minuti che raccolgono, e raccontano, il meglio di tre serate.

Il titolo del disco, omaggio esplicito alla terra natia di Moholo, allude al nome affibbiato a quello che oggi si chiama Capo di Buona Speranza dal navigatore Bartolomeu Dias, che nel maggio del 1488, nel pieno di una burrasca, fu il primo europeo ad avvistarlo: il portoghese, viste le condizioni meteo, optò per un poco rassicurante Cabo das Tormentas, trasformato poi in Cabo da Boa Esperança da Giovanni II di Aviz, sovrano del Portogallo che da lì sperava di passare per raggiungere le Indie (Giovanni II l'ottimista, per un cinico scherzo confezionato dal destino, morì prima che Vasco Da Gama ci riuscisse nel 1498).

Detto di sovrani e navigatori, torniamo a González, Moholo e ai primi giorni del febbraio scorso. Sul palco, ad affiancare i nostri, c'erano i due figli del trombettista texano: Aaron al contrabbasso e Stefan al vibrafono, balafon, congas e percussioni assortite. Ospite, in un paio di brani, il sassofonista Tim Green.

A che gioco si giocava in quelle tre serate lo si capisce fin dalla prima traccia, "Document for Walt Dickerson," che si apre con un ostinato della tromba subito contrappuntato dal vibrafono e doppiato poco dopo dal contrabbasso, prima che il drumming musicale e asciutto di Moholo faccia decollare il brano (e il disco). È il batterista sudafricano (settanta candeline spente il 10 marzo) a reggere le sorti della musica, con quel tocco pervasivo, mobilissimo, eppure straordinariamente ricco di dettagli e di colori. L'intesa con Aaron González è l'asse portante della band. Lo dimostra l'africaneggiante "Tag," che si srotola al ritmo delle pulsazioni tribali della batteria e del contrabbasso. Lo conferma "Snakehandler," impreziosita da un tema gioioso declamato dalla tromba guizzate di González padre, improvvisatore deliziosamente sobrio, dotato di una pronuncia precisa e cristallina (ascoltare, per credere, i quattro minuti e trentuno in solo di "Interlude: Gecka," un po' Ted Curson e un po' Bobby Bradford).

Insomma, c'è di che divertirsi in Cape of Storms. C'è di che scaldarsi al fuoco vivo di una musica donata con generosa sincerità.